Motivazione al consumo di droga: la carriera deviante /

Retroscena teorici della carriere deviante

Si può affrontare la tossicodipendenza come il risultato di un processo in divenire, che fonda le sue radici nel passato remoto dell’individuo. Si può dire, con Waelder (1930), che il comportamento tossicomane assolve diverse funzioni e risolve molti problemi in quanto assimilabile al principio di funzione multipla, derivato a sua volta dal concetto freudiano di sovradeterminismo, il quale implica che diversi fattori intrapsichici devono operare congiuntamente per costituire una causa sufficiente a determinare lo specifico effetto del comportamento tossicomane.

Si può dunque vedere il comportamento dell’assunzione di sostanze tossiche come il risultato di forze differenti, in conflitto tra loro, che da una parte cercano di rispondere alle richieste della
realtà, dall’altra si sforzano di dare una risposta ai bisogni dell’inconscio.

Il modo in cui l’individuo risponde, consciamente e/o inconsciamente, dipende molto dal suo stile di attaccamento, da quello, quindi, del suo caregiver, dal fatto che sia o meno stata assolta nei confronti del soggetto la funzione di base sicura e, infine, dai suoi modelli operativi interni. In tal contesto la teoria dell’attaccamento, formulata da John Bowlby, ci viene in soccorso in quanto postula l’esistenza di una tendenza innata nell’essere umano a ricercare la vicinanza protettiva di una figura di riferimento come bisogno primario, come ad esempio il bisogno di cibo. Così il bambino ricerca la vicinanza della madre per essere nutrito, ricevere calore oppure sicurezza e protezione: tale istinto/bisogno primario ha quindi un valore evoluzionistico in quanto rappresenta un notevole vantaggio in termini di sopravvivenza ed adattamento all’ambiente.

A seconda di come il caregiver risponde alle suddette richieste/esigenze di vicinanza e protezione, si sviluppano specifici stili di attaccamento. In linea di massima si può dire che, quando questo bisogno viene soddisfatto in maniera adeguata, si apre per il bambino la possibilità di esplorare il mondo.
Il caregiver rappresenta, quindi, la base sicura da cui egli si può allontanare perché ha la certezza di potervi tornare. Quando, invece, non si stabilisce un attaccamento sicuro, il bambino non è capace di dedicarsi all’esplorazione serenamente e le sue relazioni saranno segnate da problemi, spesso drammatici, di vicinanza e separazione.

Appare quindi chiaro che lo stile delle prime relazioni di attaccamento influenzi considerevolmente l’organizzazione precoce della personalità ed in particolare il concetto che il bambino ha e, soprattutto, avrà di sé e degli altri.

I principali tipi di attaccamento e di risposta alla separazione sono ottenuti dalla classificazione dei tipi di attaccamento del bambino ricavati dalla Strange Situation messa a punto da Mary
Ainsworth, allieva di Bowlby.
La Strange Situation è diretta alla valutazione dell’attaccamento e prevede otto brevi episodi, durante i quali il bambino è sottoposto a uno stress moderato e crescente dovuto a una situazione non familiare, a due separazioni dalla madre ed alla presenza di una persona estranea. In sintesi:

1. breve periodo di familiarizzazione;

2. madre e bambino sono osservati insieme nella stanza;

3. entra l’estranea/o e inizia un approccio graduale con il bambino;

4. la madre esce dalla stanza;

5. ritorna la madre e l’estranea/o se ne va;

6. la madre esce di nuovo dalla stanza;

7. rientra l’estranea/o;

8. rientra la madre.

Sulla base delle modalità di riavvicinamento del bambino alla madre, è possibile classificare
l’attaccamento secondo quattro modelli riassunti in tabella, derivanti dalla strange situation di Mary Ainsworth.


Tabella 1 – Classificazione degli stili di attaccamento nei bambini (strange situation)

PRINCIPALI TIPI DI ATTACCAMENTO E DI RISPOSTA ALLA SEPARAZIONE

CARATTERISTICHE DELLA RISPOSTA DEL BAMBINO

Sicuro

Alla separazione, il bambino protesta vivacemente; alla riunione ricerca attivamente la vicinanza della madre e si calma rapidamente.

Insicuro-evitante

Alla separazione, il bambino non manifesta alcun disagio; al momento della riunione mostra indifferenza e/o tende a evitare il contatto con la madre.

Insicuro-ambivalente

Alla separazione, il bambino protesta ed è incapace di tranquillizzarsi anche dopo la riunione, mostrando di ricercare, ma al tempo stesso di rifiutare, la vicinanza con la madre.

Insicuro-disorganizzato

Sia alla separazione sia al ricongiungimento il bambino reagisce con comportamenti contraddittori e incoerenti che non possono essere riferiti a nessuna delle categorie precedenti.

   


Approfondite indagini hanno dimostrato che le madri dei bimbi che manifestano uno stile di
attaccamento insicuro-disorganizzato, presentano la mancata elaborazione di un lutto oppure di gravi eventi traumatici nella relazione con le proprie figure di attaccamento.

Bowlby sottolinea che la richiesta di vicinanza è qualcosa di innato, ma il particolare stile di attaccamento che ogni bambino assume nei confronti delle figure di riferimento deriva dall’apprendimento, in quanto si fonda su uno specifico schema cognitivo che il bimbo stesso si è costruito sulla base delle esperienze passate e che lo guiderà in quelle future.
Si sta parlando dei modelli operativi interni, cioè conoscenze di sé-con-l’altro fatte di memorie e
aspettative comportamentali e degli stati emotivi a esse associate.
I MOI rimangono più o meno stabili nel corso della vita e vengono utilizzati anche nell’età adulta come schemi di riferimento in base ai quali organizzare ogni altra forma di interazione, compresa quella del genitore con il figlio.

Partendo da questi presupposti si è sviluppata l’idea che possa esistere una trasmissione
transgenerazionale dei pattern di attaccamento.

Si è così iniziato a studiare anche l’attaccamento negli adulti mediante uno strumento ideato da
Mary Main e chiamato Adult Attachment Interviw (AAI). Si tratta di un’intervista semistrutturata,
intesa a far emergere la storia delle esperienze di attaccamento infantile dell’intervistato e le sue valutazioni sugli effetti che tali esperienze esercitano tuttora sul suo funzionamento.

L’intervista viene codificata sia per la capacità narrativa dell’intervistato, sia per i contenuti.
Il manuale dell’intervista presenta un sistema di valutazione della coerenza del soggetto nell’uso del linguaggio che si rifà alle regole di “bontà formale” del linguaggio di Grice (1975): qualità (essere sinceri e provare ciò che si dice),
quantità (essere succinti ma completi),
relazione (essere pertinenti),
modalità (essere chiari e ordinati).

A partire dagli studi di Grice sono stati concettualizzati due compiti principali che l’AAI pone all’intervistato:

A) produrre e riflettere sui ricordi relativi alle prime relazioni, così come su esperienze

potenzialmente traumatiche;

B) mantenere un discorso coerente e collaborativo.

L’analisi dei trascritti consente di individuare quattro categorie.


Tabella 2 – Classificazione degli stili di attaccamento negli adulti (AAI)

CLASSIFICAZIONE

STILI NARRATIVI DELL’INTERVISTATO

Sicuri autonomi

Riesce a raccontare in maniera coerente gli aspetti sia piacevoli sia dolorosi delle sue esperienze infantili.

Insicuri preoccupati

Sembra ancora emotivamente molto coinvolto nelle vicende infantili che racconta. Appare arrabbiato, come se fosse ancora invischiato nelle esperienze passate con le figure di attaccamento.

Insicuri distanzianti

Racconti incoerenti, privi di dettagli, poveri di ricordi e di emozioni. Soggetto molto difeso sull’argomento.

Non risolti disorganizzati

Racconto frammentario, disorganizzato, incoerente. Profonda conflittualità tuttora presente nei confronti della figura di accudimento.


Molte ricerche hanno evidenziato che esiste un’associazione tra lo stile di attaccamento della madre e quello del figlio. Infatti si è visto che madri con attaccamento insicuro tendono ad avere figli con un tipo di attaccamento insicuro; viceversa le madri che raccontano nell’AAI un attaccamento sicuro tendono ad avere figli con uno stile di attaccamento sicuro.

Tra i fattori in grado di determinare la trasmissione transgenerazionale dei pattern di attaccamento ricopre grande importanza la capacità del caregiver di rispondere in maniera sensibile alle richieste del bambino, fattore questo che determina la qualità dell’attaccamento.

Questa capacità è a sua volta egata alla rappresentazione mentale che il caregiver ha del bambino. Diviene quindi di importanza fondamentale che il caregiver possegga l’abilità di “pensare sul pensiero”, cioè la capacità di cogliere la pura natura rappresentazionale del proprio e dell’altrui pensiero.

In quest’ottica ricopre un’importanza fondamentale la capacità della madre di concepire il bambino come un’entità mentale, come un essere umano dotato di sentimenti, convinzioni, desideri. Non è dunque solo il comportamento osservabile del caregiver a predire lo stile di attaccamento che svilupperà il bambino, quanto piuttosto la sua capacità metacognitiva, cioè il suo grado di comprensione degli stati mentali del bambino e la sua prontezza nel rispondere ad essi in maniera adeguata (funzione riflessiva, intesa come capacità di pensare e riflettere sugli stati emotivi propri e altrui, tipicamente carente nel tossicodipendente).

L’ipotesi è che avvenga un percorso transgenerazionale di questo tipo: un genitore con stile di attaccamento sicuro avrà una buona capacità riflessiva, che porterà nel figlio uno stile di
attaccamento sicuro, che porterà così ad un futuro genitore con uno stile di attaccamento sicuro, e così via…

Quindi in questa prospettiva, a differenza della visione psicoanalitica, la quale sostiene che le
capacità di auto-consapevolezza ed introspezione nascono dall’internalizzazione dell’oggetto
pensante, ciò che viene internalizzato è la propria immagine contenuta nell’oggetto, cioè
l’immagine di sé come “essere intenzionale”, capace di pensare, sentire, desiderare, credere.

La nascita del non deriva dall’assunto: “Penso – come anche l’oggetto pensa – perciò sono”, ma dall’assunto: “L’oggetto mi pensa come essere pensante, perciò esisto come capace di pensare”.
In questo senso è forte l’analogia con l’ipotesi avanzata da Winnicott, secondo la quale il bambino “scopre” il proprio Sé negli occhi della madre, che rispecchia il suo muoversi e percepire creativo.

Gravi esperienze traumatiche e/o di perdita, inibiscono o compromettono lo sviluppo della capacità riflessiva del bambino. Ritrovare la propria immagine nella mente del genitore significherebbe riconoscere l’ostilità e il rifiuto dell’altro; per proteggersi da ciò, il bambino inibisce la sua capacità di cogliere gli stati mentali e finisce per concepirsi esclusivamente in termini di realtà fisica. Al contrario, è sufficiente che il bambino abbia esperienze anche soltanto di una relazione di attaccamento sicuro perché la sua “teoria della mente” abbia la possibilità di svilupparsi. Se questo non succede la sua capacità di mentalizzazione sarà danneggiata, con gravi conseguenze sullo sviluppo psichico e relazionale, portando a difese inadeguate come diniego e scissione; è così che l’individuo può facilmente divenire tossicodipendente all’interno di un processo in divenire..

La psicologia del Sé di Heinz Kohut sottolinea come le relazioni esterne aiutino la persona a
mantenere l’autostima e la coesione del Sé, ovvero ciò di cui maggiormente mancano le persone tossicodipendenti.
Il transfert, che è ubiquitario e presente in tutte le relazioni sociali dell’individuo, è stato da Kohut descritto come: transfert speculare e transfert idealizzante.

Nel transfert speculare il soggetto si pone in modo da ottenere una risposta di conferma, una
convalida, che Kohut ha collegato al “brillio negli occhi della madre” come reazione allo sfoggio
esibizionistico del bambino, appropriato a ciascuna fase dell’età, e denominato Sé grandioso-
esibizionistico.
Queste risposte d’approvazione, secondo Kohut, sono essenziali per uno sviluppo normale, in quanto offrono al bimbo un senso di valore di sé.
Quando una madre non riesce a realizzare un contatto empatico con il bisogno del figlio rispetto a tale risposta speculare, per il bambino diventa veramente difficile mantenere un senso di integrità e di considerazione di se stesso. In risposta a questa mancanza di empatia, il senso di Sé del bambino si frammenta, ed egli cerca disperatamente di essere perfetto e di esibirsi di fronte al genitore, per poter ottenere la tanto agognata approvazione.

Questa forma di esibizione è un’altra manifestazione del Sé grandioso-esibizionistico. Tale
fenomeno interviene quando un soggetto adulto si esibisce per il proprio interlocutore nel tentativo disperato di ottenere approvazione e ammirazione: lì, dove continue e ripetute esperienze di fallimento si succederanno, si instaurerà nel soggetto la convinzione di essere egli stesso la causa di tali fallimenti; egli vedrà rispecchiati, negli occhi dell’altro, tutte le sue incertezze e ciò che considera i suoi difetti, e tutto ciò contribuirà ad instaurare in lui stili cognitivi, tratti di personalità, comportamenti e MOI che determineranno comportamenti autolesivi come appunto quello dell’assumere droghe.

Il transfert idealizzante, indica invece una situazione nella quale il soggetto vive l’altro significativo, come se questi fosse un potentissimo genitore la cui presenza consola e risana. Il
desiderio di bearsi della luce riflessa dell’interlocutore idealizzato è una manifestazione di tale
transfert.
Proprio come il bambino può essere traumatizzato dalla carente empatia della madre, che
non risponde specularmente al suo Sé grandioso-esibizionistico, così quello stesso bambino può essere traumatizzato da una madre che non si identifica empaticamente con il suo bisogno di idealizzarla, o che non gli offre un modello degno di essere idealizzato.

In entrambi i casi, il soggetto adulto o adolescente, che ha patito simili carenze genitoriali e tende a instaurare questi tipi di transfert, sta lottando con un Sé difettoso o carente – un Sé congelato evolutivamente ad uno stadio nel quale è fortemente incline alla frammentazione. In tal contesto appare quindi ovvio l’utilizzo della sostanza tossica, nel tentativo di mantenere la coesione del Sé, sentirsi al sicuro e, paradossalmente, più forte e normale.

Kohut pensava che i bisogni narcisistici permangono per l’intero corso della vita, seguendo uno sviluppo parallelo a quello del campo dell’amore oggettuale. Postulò inoltre una teoria a doppio asse, che permette di considerare uno sviluppo che coinvolge entrambi gli ambiti, quello narcisistico e quello dell’amore oggettuale.
I lattanti, crescendo, cercano di riconquistare la perduta perfezione del primitivo legame madre-bambino, ricorrendo a una delle due strategie – il Sé grandioso, nel quale è racchiusa la perfezione, e l’immagine genitoriale idealizzata, nella quale la perfezione viene attribuita al genitore. Questi due poli costituiscono il Sé bipolare.

Kohut ha esteso questa concettualizzazione a un Sé tripolare, aggiungendo un terzo polo formato dai bisogni dell’unità combinata oggetto-Sé, la gemellarità o alter ego. Questo aspetto appare nel transfert come il bisogno di essere esattamente come l’altro significativo.
Le origini di questo bisogno sono rintracciabili nel desiderio fusionale, che gradualmente si trasforma in un comportamento imitativo. Se la mancata risposta empatica dei genitori a queste strategie si ripete regolarmente, vi è un arresto nello sviluppo; se le cure genitoriali sono invece adeguate, il Sé grandioso viene trasformato in sane ambizioni, e l’immagine genitoriale idealizzata viene interiorizzata sotto forma di ideali e valori.

Il termine oggetto-Sé è stato adottato per indicare il ruolo svolto dalle altre persone nei confronti del Sé, in relazione ai bisogni di specularità, idealizzazione e gemellarità. Dal punto di vista della crescita e dell’evoluzione del Sé, gli altri non vengono considerati come individui separati, bensì come oggetti che possono gratificare i bisogni del Sé. In un certo senso, gli oggetti–Sé possono essere visti più come funzioni (ad esempio, conforto, convalida) che come persone.
Secondo Kohut il bisogno degli oggetti–Sé non viene mai superato, ma perdura per l’intero corso della vita; lì dove le opportunità e le carenze si intersecano, la droga assume la funzione di un oggetto-Sé, indispensabile per la sopravvivenza emotiva e per l’assunzione di un’identità.

Questa concezione differisce profondamente dalla teoria delle relazioni oggettuali della Mahler,
centrata sulla separazione intrapsichica, in quanto la psicologia del Sé giudica impossibile la
separazione del Sé dall’oggetto-Sé. Per tutta la vita noi abbiamo bisogno di risposte di convalida ed empatiche da parte degli altri, per mantenere la stima di noi stessi. La maturazione e la crescita ci allontanano dal bisogno di oggetti-Sé arcaici, per portarci verso la capacità di utilizzare oggetti-Sé più maturi e adeguati. Quindi diviene di fondamentale importanza rafforzare la debolezza del Sé del tossicodipendente, in modo che possa tollerare esperienze non ottimali con oggetti-Sé senza che si verifichi una significativa perdita di coesione.

L’angoscia fondamentale è per la psicologia del Sé, “l’angoscia di disintegrazione”, ovvero la paura che il proprio Sé si possa frammentare di fronte a risposte inadeguate da parte dell’oggetto-Sé, facendo così esperire una condizione non umana di morte psicologica.

Dunque, dal punto di vista della psicologia del Sé, molte forme di comportamento sintomatico,
come appunto l’abuso di sostanze, non sono manifestazioni di un conflitto nevrotico correlato
all’angoscia di castrazione. Tali disturbi riflettono piuttosto un tentativo, in situazioni di emergenza, di mantenere e/o ristabilire la coesione interna e l’armonia di un Sé vulnerabile, poco sano. Queste frammentazioni del Sé si verificano lungo un continuum che, dalla lieve preoccupazione o ansia, giunge al panico grave, nella consapevolezza di essere completamente a pezzi.


La carriera deviante



L’analisi del pensiero scientifico fin qui effettuata consente di affermare che gli sforzi teorici hanno spesso utilizzato il criterio delle evidenze per cogliere la cause del comportamento tossicomane e, in funzione di queste, gli strumenti più adeguati di intervento: evidenze sociali, comportamentali e, in anni più recenti, familiari e di relazione, psicologiche. Si sono attivati dei processi semplificati di ragionamento che, a partire da un esito di comportamento negativo – l’agire tossicomane -, hanno individuato “correlazioni illusorie” con elementi presenti nel passato dei protagonisti di quell’agire.

L’evidenza attuale – il comportamento tossicomane – è stata così, spesso, ricondotta ad evidenze del passato, in termini di deprivazioni:
fisiche (dagli studi Lombrosiani fino ai più sofisticati programmi di ricerca sulle disfunzioni cerebrali);
sociali e ambientali (dall’ipotesi della disorganizzazione sociale al divario, esperito in maniera difforme fra i diversi strati sociali, fra mete culturali proposte e mezzi legittimi a disposizione); comportamentali (si pensi all’ipotesi dell’esempio negativo o dell’imitazione di uno stile di comportamento trasmesso da famiglie o gruppi con comportamento di abuso di sostanze); familiari e relazionali (carenze di cure materne, abbandoni precoci, stili educativi);
psicologiche e psicopatologiche.

L’evidenza ha costituito una sorta di concetto ponte fra i pensieri dell’uomo comune e quelli dello studioso, entrambi impegnati nel difficile quanto quotidiano compito di stabilire livelli, sia pure modificabili, di certezze nella definizione dei confini di normalità.
Questo tipo di pensiero ha rappresentato una costante attiva fino a giorni non molto lontani, con esiti ancora pregnanti: pochi sarebbero oggi portati a sostenere l’esistenza del tipo lombrosiano, ma quest’ultimo continua a costituire minaccia, quando nel normale fluire del quotidiano mettiamo in atto misure preventive e difensive di fronte a chi si discosta da un aspetto, anche fisico, di normalità.

I primi accenni di cambiamento possono essere rintracciati nell’apparizione di alcune categorie
concettuali, quali: processualità, causalità circolare, carriera deviante, attribuzione di significato, dimensioni costitutive dei discorsi che si sono sviluppati entro correnti di pensiero che nell’interazionismo simbolico riconoscono una comune matrice disciplinare.

A partire da condizioni iniziali simili o, al contrario, altamente differenziate, la devianza (ossia il
comportamento tossicomane) è un esito possibile di processualità che compongono – in forme del tutto idiosincratiche sul piano pisicologico, sociale, relazionale – dimensioni che, struttualmente, non contengono aspetti di devianza e, quindi, non possono essere ad essa collegate in termini causalistici.

La carriera deviante sembra aver rappresentato il concetto a più forte attrattività nel contrastare la logica di connessione deterministica fra condizioni di partenza ed esiti di comportamento, evidenziandone la povertà esplicativa rispetto a un fenomeno processualmente complesso come il comportamento (anche autolesivo) dell’assunzione di droghe.

L’ipotesi della carriera si sviluppa con gli obiettivi di:

1. Individuare fattori predittivi del comportamento deviante dell’assunzione di stupefacenti,
della sua insorgenza e della stabilizzazione;

2. Recuperare le dimensioni attinenti la soggettività umana, i percorsi individuali di “iniziazione”, l’espressione del Sé nel comportamento trasgressivo, l’assunzione del ruolo, la costruzione di coerenza rispetto all’identità.

Il concetto di carriera deviante, in relazione alla tossicodipendenza, viene assunto qui con l’intento di superare quello che può essere considerato il principale limite delle impostazioni tradizionali:
l’assenza di criteri in grado di cogliere l’aspetto processuale della devianza e di ricostruire il
percorso individuale che accompagna ed organizza il passaggio dalla commissione di un’azione deviante (come l’assunzione di droghe solo in feste e festini!) all’assunzione di uno stile di vita deviante (la tossicodipendenza vera e propria).


Le tappe della carriera deviante


Nel tentativo di individuare i fattori predittivi della carriera deviante e di possibili recidive, si
possono ricostruire le tappe della carriera, con particolare attenzione all’inizio, alla durata e quando presente, alla conclusione, intesa come assenza di recidive.

È possibile sicuramente affermare che il comportamento tossicomane è solamente uno degli
elementi di una più ampia sindrome di comportamento deviante, che ha inizio nell’infanzia e
persiste nell’età adulta.
A tale riguardo gli studi attuali sulle carriere devianti trattano i fattori predittivi individuati dalle prime ricerche sul tema non più come condizioni-causa, ma come fattori di rischio di uno sviluppo in senso deviante, diversamente attivi in relazione a fasi e momenti del rapporto, reciprocamente costruttivo, fra identità dell’Io e ruolo sociale.

Vi è una processualità nell’assunzione dell’identità tossicomane, si attraversano delle fasi che sono vincolanti rispetto a un’assunzione di sé come tossicodipendente. Inizialmente è presente
un’assunzione occasionale, senza ripercussioni sull’immagine di sé.
Le attribuzioni negative provenienti dal sociale possono produrre, in un secondo momento, una reazione di rabbia del giovane, che inizia a credere di essere un tossicodipendente; comunque egli manterrebbe ancora in questa fase ampi margini di non adesione al ruolo negativo attribuitogli.

La costruzione di un’identità in senso tossicomane avverrà, in forma quasi costrittiva, solo in un momento successivo, producendo nell’individuo la messa in atto di quei comportamenti socialmente prospettati e anticipati.

L’ipotesi fin qui esposta sottolinea l’estrema variabilità da un caso all’altro ed il carattere di
assoluto non determinismo degli esiti di comportamento. Così, a partire dalle stesse condizioni
iniziali, le realtà soggettive e di interazione possono condurre ad itinerari diversi e a diverse
modalità di assunzione di un ruolo deviante auto ed etero-riconosciuto.
La carriera si profila come situazione processuale complessa, le cui tappe costituiscono microcontesti organizzatori di interazioni, pratiche simboliche, scambi sociali che progressivamente correlano, nella mente del deviante e nei significati attribuiti dall’osservatore, espressioni comportamentali e condizioni soggettivamente vissute.

Si possono individuare le fasi della carriera tossicomane avvalendosi degli originali concetti di
deviazione primaria e secondaria: mentre la prima rappresenta un momento isolato, non ricondotto dal soggetto al proprio stile di vita, nel secondo caso l’evento deviante porterebbe ad una riorganizzazione del Sé, delle proprie caratteristiche psicosociali.
Più precisamente il deviante secondario è soggetto a una nuova socializzazione e, a prescindere dalle sue azioni, è una persona la cui vita e identità sono organizzate attorno ai fatti della devianza.

Il modello sequenziale fin qui esposto può essere sintetizzato nella successiva tabella.

Tabella 3 – Le tappe della carriera deviante

INIZIO

Appare caratterizzato da costrutti quali: l’occasione favorevole, l’agire gruppale, la dimensione comunicativa dell’atto costituita da vantaggi espressivi rivolti al proprio Sé e alle relazioni significative, la sfida e l’autoefficacia percepita attraverso il comportamento trasgressivo.

PROSECUZIONE

Comporta spesso la scoperta dei vantaggi strumentali, il riconoscimento da parte delle altre persone del proprio essere deviante, la progressiva riduzione delle possibilità, percepite dal soggetto, di identificare agentività positive in altre sfere d’azione.

STABILIZZAZIONE

Le aspettative degli altri tendono a monodirezionarsi, le richieste e le proposte di azione si orientano a valorizzare la competenza acquisita nella devianza, la persona stessa la riconosce e la utilizza nell’agire trasgressivo, ma inizia anche ad averne paura.

INTERRUZIONE

Rappresenta una possibilità più volte considerata con vissuti di problematicità tali, però, che ne rendono difficile la realizzazione.



Si può quindi parlare di carriera deviante del tossicomane, in quanto vi sono stati nei suoi confronti ripetuti e costanti errori di risposta e anche nel rapportarsi a lui da parte del suo caregiver; ciò ha condotto alla costruzione di un ambiente insano, insicuro, da lui percepito imprevedibile e spaventoso, pieno di risposte contraddittorie, che lo hanno condotto ad utilizzare meccanismi difensivi sempre meno sani e maturi, che, stabilizzandosi hanno portato a stili cognitivi, tratti di personalità, MOI ed immagini di Sé sempre più fragili e devianti, che sfociano nel comportamento dipendente.

Motivazioni al consumo di droga

Si possono distinguere nel consumo di droghe fattori individuali e sociali:

A) I fattori individuali potrebbero essere costituiti da veri e propri disturbi psichici quali i
disturbi di personalità, le psicosi, le nevrosi o da disagi psicologici dovuti alla fase evolutiva
del soggetto, a problematiche familiari o sociali; in entrambe le situazioni, in sintonia con la
prospettiva di Kohut, si andrà a costituire un quadro di multi-problematicità, che favorirà la
scelta di una condotta tossicomane, costituito da immaturità affettiva, scarsa introiezione di
corretti valori morali e sociali, angoscia esistenziale, incapacità di tollerare la frustrazione, e
debolezza dell’Io.

B) I fattori sociali invece, costituiti dalle difficoltà familiari, dall’emarginazione e ghettizzazione, individuano nell’elemento imitativo la variabile causale preminente nell’insorgenza di una tossicodipendenza.

Per quanto riguarda le modalità di coinvolgimento dell’assuntore di droga con la sostanza, Ponti distingue fra:

- il consumatore, che è colui che usa la droga, qualunque essa sia, saltuariamente o in situazioni d’eccezione, o spesso ma con dosaggi innocui e mantenendo sempre costante la possibilità di interrompere l’assunzione senza risentirne;

- il tossicodipendente, che è colui nel quale la dipendenza si è instaurata a causa dell’uso
prolungato, e che ha la tendenza a continuare ad usare e procurarsi la sostanza: si è creata in lui la dipendenza;

- il tossicomane, che è colui nel quale la tossicodipendenza è diventata così rilevante da essere
l’unica ragione di vita.

Le diverse tossicomanie si possono in sintesi catalogare come segue.

Tossicomanie traumatiche - Esordiscono dopo un evento traumatico e vengono caratterizzate dal non avere dei punti di riferimento. tali da permettere un’evoluzione non traumatica dell’evento a forte risonanza emotiva, da un tono dell’umore disforico e carente di elementi soggettivi riferiti al piacere del farmaco, dalla carenza di elementi sfidanti, tipici di condotte tossicomaniche.

Le tossicomanie traumatiche hanno un decorso favorevole con un lento e spontaneo abbandono, da parte del soggetto, dell’assunzione della sostanza.

Tossicomanie sostitutive di nevrosi attuali - Funzionano da meccanismo di copertura di un
conflitto attuale ed esterno del soggetto e si contraddistinguono per l’esistenza di complicità, a
livello familiare, nel mantenimento del comportamento tossicomane, da aspetti di sfida e di
insofferenza verso le persone, erroneamente percepite dal soggetto come responsabili.
ILdecorso risulta difficile, anche a causa del potenziale insorgere di un danno fisico secondario.

Tossicomanie di copertura o di compenso - Con esse la dipendenza dalla sostanza funge da “automedicazione” nel tentativo di controllare o coprire un preesistente disturbo psichico grave (di tipo ossessivo, depressivo o paranoide e con personalità asociali).
Le caratteristiche di tali tossicomanie differiranno a seconda della patologia che tentano di coprire.

Tossicomanie nucleari - La loro eziologia va ricercata direttamente nell’ambito della personalità del soggetto in cui probabilmente si è manifestato un disturbo nello sviluppo emotivo e cognitivo durante le prime fasi dell’età evolutiva. In tali tossicomanie è presente una sensazione di angoscia, impotenza ed incompiutezza, nonché una continua ricerca dell’identità, percepita come precaria.

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Testimonianze

M.V.

La mia esperienza inizia come ammalato e poi si trasforma in caregiver. 
Infatti all’inizio del 1999, nel mese di Marzo e poi nel mese di Maggio per strada e, fortunatamente vicino casa, improvvisamente perdevo feci in abbondanza, come se qualcosa mi scoppiasse dentro e spingesse tutto fuori.
M.V.

G.A.

Il mio nome è G.A. ho 80 anni e sono il caregiver di una donna a me cara operata al seno. L’ho accompagnata alle visite e lungo tutto il suo percorso, fino ad approdare assieme dalla Dottoressa Rendina Margherita. 
G.A.

D.L.

Così trovai da sola la Dottoressa Rendina e iniziai in segreto la mia psicoterapia. Fu un percorso molto produttivo. Dopo un primo momento, che durò qualche mese, di crisi e disorientamento, presi consapevolezza di mè, di cosa volevo, di quali erano i miei difetti che mi avevano incastrato in quella relazione, di quali erano le mie responsabilità...
D.L.

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